Durante il recente World Economic Forum, il viceministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda ha presentato un breve filmato, realizzato in collaborazione con l’Istituto per il Commercio con l’Estero (ICE). “Italy the extraordinary commonplace”, a mio parere, è un video gradevole e ben realizzato, e comprende molte eccellenze manifatturiere Italiane, senza dimenticare che l’Italia è il Paese che comprende più siti Patrimonio dell’Umanità UNESCO. E’ bello mostrare che abbiamo il 5° surplus al mondo nella bilancia commerciale nei prodotti finiti, che siamo il 2° esportatore Europeo e che siamo stati il 3° Paese a lanciare in orbita un satellite, per provare a combattere i pregiudizi che ci accompagnano all’estero (gesticolatori, vitelloni, amanti della dolce vita, ecc.).
Tuttavia, mi sembra molto discutibile evitare di mostrare tra le eccellenze Italiane la moda e il design. Questi due settori danno un contributo elevatissimo al PIL; danno lavoro a centinaia di migliaia di persone; preservano sia antiche eccellenze manifatturiere e artigianali che elevate competenze manageriali, industriali e creative; sostengono il prestigio del nostro Paese, suscitando ammirazione in tutto il mondo. Soprattutto, in questi due settori siamo leader: se nel design questa leadership è indiscutibile (e basta frequentare il salone del mobile di Milano per rendersene conto), la stessa posizione deve essere rivendicata nella moda, dove Stati Uniti e Gran Bretagna hanno sostanzialmente perso la loro filiera produttiva e la Francia la mantiene solo in una nicchia alta. Prova ne sia che molte produzioni di eccellenza di marchi stranieri (calzature, pelletteria, prèt-à-porter, occhiali, ecc.) vengono realizzate in Italia, che filati, tessuti e pellami Italiani sono considerati i migliori al mondo, che alcune nostre aziende si quotano in Borsa con grande successo (Prada, Ferragamo, Brunello Cucinelli, Moncler, ecc.), mentre altre vengono acquisite con investimenti elevatissimi (Brioni, Pomellato, Loro Piana, ecc.).
Sorge quindi un dubbio: si tratta di una scelta di opportunità, o di una semplice dimenticanza, o magari è una implicita espressione di radicati quanto superficiali pregiudizi (moda e design come settori “effimeri”, tecnologicamente, culturalmente e managerialmente “poveri”, “secondari” rispetto ad altri settori “seri”)? Se così fosse, sarebbe un incredibile autogol. Una cosa è certa: i Francesi non se ne sarebbero mai dimenticati. E’ dai tempi di Luigi XIV che hanno una parola per descrivere la propria missione di insegnare al mondo l’arte di vivere: grandeur. E ci insegnano che il senso di “grandezza” di un Paese si costruisce valorizzando le proprie eccellenze, non vergognandosene.
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