A cura di: Paolo Sebastiani, Ludovica Bonifazi, Giovanni D’Alfonso, Patrick Minca – Partecipanti alla terza edizione del Master Giuristi in Azienda.
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L’ingresso delle nuove tecnologie e lo sviluppo di internet ha avuto un forte impatto sul mercato del lavoro creando nuove opportunità e introducendo nuove categorie di lavoratori che integrano o sostituiscono i ruoli tradizionali. Uno degli esempi più noti di questa rivoluzione del mondo del lavoro è senz’altro quello della gig economy che ha potuto svilupparsi in maniera rapida e consistente proprio grazie all’utilizzo delle piattaforme digitali che permettono di facilitare e velocizzare l’incontro tra lavoratori e datori di lavoro.
Il termine gig economy, di derivazione anglosassone, si traduce come “economia dei lavoretti” e sta generalmente ad indicare quei mestieri che le persone svolgono in via secondaria e dunque come non principale fonte di guadagno. In questi lavori la retribuzione è quantificata in base all’attività svolta e il pagamento è mediato dalla piattaforma digitale che mette in contatto allo stesso tempo lavoratori e clienti.
La gig economy può quindi essere definita come una nuova forma di organizzazione dell’economia digitale, un mercato dinamico e flessibile, prevalentemente caratterizzato da lavoratori autonomi o con contratti a breve termine, nel quale l’incontro tra domanda e offerta avviene online tramite apposite piattaforme digitali. Nell’ambito di questo fenomeno si individuano tre macro-categorie.
In primo luogo, abbiamo il cosiddetto “crowdwork” (lavoro-folla) che permette di rivolgersi a una platea molto vasta in quanto i committenti hanno la possibilità di postare le offerte dilavoro disponibili su una bacheca virtuale, come per esempio avviene nel caso della piattaforma ODesk che consente a freelance o lavoratori indipendenti di trovare piccoli lavori o mansioni specifiche.
Un’altra categoria è quella dell’Asset rental, ovvero l’affitto e il noleggio di beni e proprietà, conosciuta anche come “sharing economy”, dove spesso la prestazione lavorativa è assente o solo accessoria, come nel caso del proprietario di un appartamento in affitto su Airbnb. Quando si parla di gig economy, tuttavia, la prima categoria che viene in mente è quella del lavoro on-demand tramite l’utilizzo di app e il caso più emblematico in tal senso è quello delle app di food delivery.
Il modello di business del food delivery ha trovato riscontro in numerosipaesi dal momento che risponde alla necessità oggi fortemente sentita dalle persone di avere più tempo: infatti, essendo portati a trascorrere le giornate sempre di più fuori casa per la frenesia della vita quotidiana e lavorativa, le persone non hanno più tempo per cucinare e preferiscono ricorrere a soluzioni veloci e pronte rispetto a quelle che richiedono una preparazione più complessa.
Nello scenario italiano le app di food delivery che hanno avuto maggiore successo e che operano nella maggior parte del territorio sono quelle di Foodora, Deliveroo, Uber Eats, Just eat e Glovo. Nonostante questa fetta di mercato sia remunerativa e in rapida espansione, non può riscontrarsi lo stesso per quanto riguarda le condizioni lavorative di tutti quei soggetti che provvedono alle esigenze di logistica e di trasporto in senso stretto: i riders.
Con tale termine intendiamo i fattorini che si occupano delle consegne a domicilio e che, a causa dei vuoti normativi presenti nel nostro sistema legislativo, si sono ritrovati spesso privi di adeguate tutele e garanzie. Partendo già dal significato del termine gig economy, è evidente come tale fenomeno non venga percepito come un vero e proprio lavoro, ma più come un’attività che le persone svolgono in via secondaria al fine di arrotondare sullo stipendio principale.
La conseguenza di questa percezione è che la categoria dei riders e dei gig workers in generale non sembra essere considerata come bisognosa di tutela giuridico/lavorativa né tantomeno di particolari diritti. Uno studio condotto da due docenti dell’Università degli Studi di Milano ha tuttavia messo in luce che nella categoria dei riders di Milano rientrerebbero principalmente soggetti stranieri che fanno delle consegne a domicilio la loro unica fonte di reddito.
Secondo questa indagine vi sarebbero per lo più giovani soggetti maschili di età compresa tra i 22 e i 30 anni, e, se per quanto riguarda i lavoratori italiani sembrerebbe essere corretta l’associazione studente-lavoratore, lo stesso non vale nell’ipotesi di soggetti di origine straniera per le quali le consegne a domicilio rappresentano la loro principale, e spesso unica, fonte di reddito, ritrovandosi così privi delle relative tutele previste dalla legge e dai contratti collettivi per i lavoratori subordinati.
Interessante inoltre lo studio condotto nel 2018 dall’Inps su tutta la platea dei gig workers italiani che ha per primo “smontato” il mito della gig economy come lavoro per i giovani, evidenziando che i gig workers costituiscono una percentuale che oscilla tra il 27% e il 30% nei lavoratori tra i 30 e i 49 anni, del 20% degli over 50, mentre tra i più giovani (18-29 anni) sfiora appena il 10%.
Il modello di business delle aziende digitali di food delivery varia da piattaforma a piattaforma e a seconda dei casi, i riders possono essere pagati a orario o a cottimo. In ogni caso, le aziende riescono a ottenere un forte risparmio di circa il 30% sui costi del lavoro grazie all’assenza dei contratti nazionali e dei diritti spettanti al lavoratore subordinato, quali ad esempio i benefit, gli straordinari e i giorni di malattia.
Ulteriore aspetto critico per i riders è quello legato al sistema connesso alle piattaforme digitali: secondo questo sistema, i riders sono soggetti a una sorta di posizione in classifica determinata da un algoritmo il cui meccanismo non solo non è ben chiaro ai lavoratori ma è stato più volte accusato di essere penalizzante.
Secondo la Cgil, infatti, tale algoritmo nell’elaborare i ranking reputazionali dei fattorini, che determinanodi fatto le future opportunità di lavoro e le priorità di prenotazione per le consegne, finirebbe per emarginare e escludere dal ciclo produttivo coloro che non riescono a essere disponibili a loggarsi nelle aree di lavoro loro assegnate.
In questo modo, il lavoratore che non segue la logica dell’algoritmo, si ritrova progressivamente escluso dalle richieste di lavoro, arrivando in alcuni casi a essere de-loggato e a vedere i propri account disattivati senza giustificato motivo.
A cura di: Paolo Sebastiani, Ludovica Bonifazi, Giovanni D’Alfonso, Patrick Minca – Partecipanti alla terza edizione del Master Giuristi in Azienda.